"La giustizia capovolta", dibattito alla Casa Circondariale per ripensare l'attuale modello di giustizia

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Carcere e giustiziaCarcere e giustizia

"Quando Caino uccise Abele, Dio non lo abbandonò, ma lo avviò ad un cammino di rieducazione". Un nuovo modello di giustizia “riparativa” o “riconciliativa” si affaccia alla ribalta.

“La giustizia capovolta” non è solo il titolo del volume presentato questa mattina presso la Casa Circondariale di Benevento, ma l’invito a ripensare l’attuale modello di giustizia retributiva, in cui la vittima si ritiene “risarcita” con la pena inflitta al reo. Pur nella garanzia della certezza della pena, ai sensi dell’art. 27 della Costituzione la nuova formula prospetta una ipotesi di catarsi dal reato, che prova a riconsiderare i punti di vista tanto della vittima quanto del reo, ai fini di un ristoro dell’anima bilaterale.

La direttrice del carcere, Maria Luisa Palma, ha sottolineato come l’esperienza del carcere sia intesa nella nostra società come l’occasione per scontare una pena comminata in relazione al reato e quanto, invece, sia necessario riconsiderare la partita che si gioca tra il reo e lo Stato-istituzione. “Una partita che anche dal mondo civile è percepita come parziale”, sottolinea la direttrice. “La tentazione securitaria non è la soluzione”- gli fa eco Ettore Rossi, direttore Ufficio per i Problemi Sociali e il Lavoro della Diocesi di Benevento. “I dati statistici ci danno la misura di come l’inasprimento della pena non diminuisca la criminalità”.

Il concetto è che alla condanna deve far seguito un percorso di riabilitazione interiore, che non mancherà di riverberare effetti benefici in ambito sociale. Rossi sottolinea come anche solo la lettura del libro da parte dei costretti della casa circondariale sia stata di per sé promotrice di cambiamento, in quanto ha offerto spunti di riflessione interiore che si sono tradotte in domande di senso per i relatori, nel corso della presentazione. La parola passa a Padre Francesco Occhetta, autore del libro. La copertina raffigura un albero capovolto. “Mostrando le radici ho voluto significare la necessità di curare le radici per la salute dell’albero”. La metafora è chiara e i dati forniti dal gesuita confermano: abbiamo 195 carceri con 53.000 detenuti, con l’ingresso di circa 1000 persone al giorno. Di questi il 69% recidiva il reato. Lo Stato spende circa 200 euro al giorno ma solo 95 sono investiti nella rieducazione. “Se solo la recidiva calasse dell’1% lo Stato risparmierebbe 51.000 di euro circa”.

I casi di recidiva diminuiscono e si attestano al 19% tra i 29.747 detenuti che stanno usufruendo di misure alternative al carcere. “Il modello di giustizia rieducativa - dice - è previsto anche nella nostra Costituzione, anche se non ne sono chiare le modalità di attivazione. Occorre trasformare i luoghi di pena, che non esita a definire”discariche sociali”, in luoghi di riabilitazione. Il modello riabilitativo o integrativo non prevede deroghe alle responsabilità del reo, eppure punta alla sua rieducazione attraverso la figura di un mediatore. Il climax di questa operazione catartica è raggiunto nel mettere in connessione la vittima col carnefice, in una esperienza costruttiva di superamento del dolore per entrambi.

I fondamenti biblici, ma anche laici a supporto dell’esperienza rieducativa, secondo Padre Francesco, sono da ritrovarsi nel principio del non giudicare. “Quando Caino uccise Abele, Dio non lo abbandonò, ma lo avviò ad un cammino di rieducazione. La società ha la responsabilità morale e civile, anche egoisticamente nell’interesse della parte sana della società, di risanare la parte malata. Il nuovo modello ha precedenti nell’istituzione di “aree del silenzio” nel carcere di Nuova Delhi , istituite da Kiran Bedi ed è già stata applicata negli USA, nel regno Unito, dove è stata realizzata un’esperienza di approccio tra vittima e colpevole, in Germania, in Francia e in Olanda, dove è la stessa polizia che si occupa di restituzione alla società civile di criminali che si sono macchiati di violenza sessuale.

Trovare una dimensione spirituale della giustizia è possibile: ci ha provato Bruno Vallefuoco, padre di una vittima innocente e coordinatore regionale del settore memoria di Libera. Suo figlio Alberto fu ucciso dalla camorra. Il Signor Vallefuoco racconta della giornata conclusiva del processo, quando ai colpevoli fu assicurato l’ergastolo e due anni di isolamento. La voce si incrina nel ricordare la vicenda giudiziaria ed umana :“Al momento della lettura della sentenza mia moglie ed io realizzammo che anche se giustizia era stata fatta, il dolore continuava a lacerarci e la ferita dell’anima sarebbe stata perennemente aperta. La società civile si solleva dalle sue responsabilità quando ammette che ci si può trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato. La realtà è che è colpa di tutti se ci sono posti sbagliati”.

Il percorso di maturazione di Vallefuoco lo ha portato nel 2007 ad incontrare un gruppo di detenuti del carcere minorile di Nisida. “Guardarsi negli occhi e riconoscere gli uni il dolore degli altri è stata un’esperienza cruciale” racconta con commozione. Di quegli undici ragazzi otto hanno ritrovato la strada maestra, anche a costo di grandi sacrifici. Per molti infatti uscire dal carcere significa ripagare la malavita del supporto economico che nel periodo di detenzione essa offre alla famiglia del recluso e, dunque, uscire dal giro non è solo una questione di scelta personale. “Perdono è una grazia che riceve chi riesce a perdonare” conclude il papà di Alberto, tra gli applausi dei convenuti e dei costretti. Interviene per le conclusioni Mons. Felice Accrocca, che riconosce la necessità di passare da una legge separazionista ad una di tipo inclusivo, per il benessere sociale, che a sua volta passa per la serenità dei singoli. Per farlo però riconosce che è necessaria una disponibilità profonda al cambiamento. E il cambiamento va riconosciuto nella volontà di chi delinque, ma è disposto a rinnovarsi. Uno dei costretti presenti ha voluto leggere la lettera di un ergastolano, che si è rivolto al Presidente della Repubblica perché venga istituita la pena di morte. “Sono stanco di morire un po’ alla volta… Con me è stata condannata tutta la mia famiglia”.

Sonia Caputo



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