Agnese Moro e Adriana Faranda: un incontro oltre il conflitto. Battaglia: "Basta tacere"

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Moro e FarandaMoro e Faranda

Due storie differenti quelle di Agnese Moro ed Adriana Faranda unite dal dialogo, dalla Giustizia della parola, da quella Giustizia riparativa che è l’humus della convivenza civile, di ogni rapporto umano, del disarmo concettuale di canoni imbalsamati dalla forma e privi di respiro. 

“Disarmarsi di rabbia e pregiudizio” questo, secondo Agnese Moro è il percorso comune che segue non solo la Giustizia ma anche il dolore ed il cambiamento. Il disarmo del “cuore” e dei “sentimenti”, senza dimenticare la storia, disarmare il male, pensare che la giustizia riguarda tutti, ricostruire relazioni.

Questo è anche lo spirito di questo incontro. Un incontro che si è svolto all’interno della Concattedrale di Sant’Agata de’Goti nell’ambito del percorso della Commissione Regionale Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale Campana alla presenza di mons. Domenico Battaglia e mons. Giovanni D’Alise. Un incontro possibile quello di Agnese e Adriana anche grazie al lavoro di Padre Guido Bertagna, del criminologo Adolfo Ceretti, e della giurista Claudia Mazzucato e al loro gruppo di incontro fra vittime e responsabili della lotta armata degli anni Settanta.

Due storie differenti quelle di Agnese Moro ed Adriana Faranda unite dal dialogo, dalla Giustizia della parola, da quella Giustizia riparativa che è l’humus della convivenza civile, di ogni rapporto umano, del disarmo concettuale di canoni imbalsamati dalla forma e privi di respiro.

Due persone, due giovani donne. Una, Agnese, figlia del presidente DC, Aldo Moro – presidente della Democrazia Cristiana rapito da un commando di 4 uomini in via Fani il 16 marzo del 1978, morirono gli agenti della scorta, e poi ucciso dopo 55 giorni di prigionia dalle Brigate Rosse. Quel 16 marzo, alla Camera, doveva svolgersi il voto di fiducia che avrebbe dato il via al quarto Governo Andreotti con l’appoggio (in termini di maggioranza parlamentare) del PCI – l’altra, Adriana, combattente rivoluzionaria e membro di quello che fu il gruppo della lotta armata rivoluzionaria. Erano gli anni della contestazione, del “vogliamo tutto”; gli anni in cui il Collettivo Politico Metropolitano si fonde con il Collettivo Politico Operai Studenti (il gruppo dell’appartamento di Reggio Emilia); gli anni delle connessioni con le lotte operaie e del controllo riformistico; gli anni della tesi di Von Clausewitz: “la guerra è il prolungamento della politica”; gli anni del cosiddetto “socialcapitalismo” e delle imposizioni USA, dei golpe; gli anni in cui la lotta cambia volto e abbandona l’organizzazione delle masse e non coltiva più la cosiddetta “coscienza rivoluzionaria”. Sono gli anni dell’agire e non del dirigere: sono gli anni di piombo.

È impossibile parlare di queste storie senza leggere il contesto storico, sociale e politico. Sono gli anni più bui della Repubblica, dove l’immobilismo politico – in questo caso della DC – fa il paio con il sangue. Sono anni di agonia, di bombe e agguati ma anche di silenzi e di omissioni.

Da un lato il nemico: la DC (presto anche il PCI di Berlinguer verrà accusato) dall’altro la pretesa del cambiamento, la pretesa di diritti, di uguaglianza o meglio di equità e la decisione dell’attacco. L’omicidio Moro segna il punto di non ritorno, l’attacco al “cuore dello Stato” segna anche il declino della lotta, la fine di ogni mediazione e anche “del dissenso sociale”. La fine di un percorso per la Faranda (contraria all’uccisione dello statista così come il suo compagno Valerio Morucci) che definì quella sentenza di morte: “un errore politico di grandi proporzioni”.

Due storie distinte ma unite. Una storia di “chiamate e risposte”, seppur differenti, che rivisita quei luoghi di dolore attraverso un percorso tortuoso e di solitudine. Due dolori diversi che cercano strade simili. Storia di due memorie condivise che si fanno memorie plurali, rispettando le loro differenze.

“Avevo 25 anni – esordisce Agnese Moro – quando la mia vita è cambiata. Alla violenza delle BR si è aggiunta la violenza non meno dolorosa del modo in cui le autorità hanno trattato il caso di mio padre. La morte, non conclude una vicenda ma apre altri scenari e mi porto dietro due convinzioni: la certezza che in quella prigione mio padre non era solo (il riferimento è alla fede, ndr) e che il male è una cosa terribile, esiste e fa soffrire”.

Agnese Moro parla poi di quei sensi di colpa che per anni le hanno invaso la mente, di quella “tirannia del male” che non ti abbandona e pone una visione diversa del senso di giustizia e di perdono: “avevo la sensazione di poter fare di più”. Il suo discorso è un inno di umanità: “la giustizia penale è importante, ma allo stesso tempo il dolore di qualcun altro non estingue il mio e non è giusto infliggere il mio dolore all’altro”.

La Moro, rivive quelle ferite che definisce “dittatura del passato” che a suo avviso produce due effetti collaterali: “la sensazione che i morti contino più dei vivi” e la convinzione che “nessuno possa condividere quello che hai provato”. La figlia del presidente Moro si dice inoltre “allergica” alla parola non al perdono ma alle accezioni e sfumature che quella parola comporta: “Il perdono non è un sentimento, ma una decisione, è dire basta, è fermare tutto questo male”. Racconta, inoltre, il suo ingresso nel gruppo con le vittime e gli ex militanti, dell’incontro con Franco Bonisoli (uno del commando insieme a Morucci, Fiore, Gallinari anche se all’azione parteciparono anche Moretti, Seghetti, Balzerani, Algranti, Casimirri e Lojacono): “mi portò una piantina – ricorda – e nelle piccole cose ho scoperto l’umanità di queste persone e rimasi colpita dal dolore di queste persone che avevano commesso qualcosa di irreparabile”. È in questo istante che torna lo “sforzo”, quello delle parole e la consapevolezza che: “la Giustizia penale non rimprovera e che il male non avrà mai l’ultima parola”.

Le fa subito seguito Adriana Faranda: “Lo sforzo del confronto – dice – per non tirarsi indietro, disarmarli per tirare fuori la verità. Queste persone ferite in quella stagione terribile, avevano il bisogno di capire perchè e probabilmente le nostre risposte, forse insufficienti, non hanno colmato l’enormità della loro domanda”. Al centro di questo percorso secondo la Faranda c’è: “la ricostruzione della relazione che poi avevamo rotto con tutta la comunità”.

La Faranda non si fa sconti: “Sono una persona che ha vissuto tutto, compresi quei passi graduali e successivi sulla strada della violenza, della rivoluzione e della follia. Tornare indietro su queste scelte è difficile, azioni abominevoli senza alcun segno di umanità”. Rispetto agli anni in carcere ha aggiunto: “La Giustizia penale ha un suo valore basata sulle ragioni della comunità: espii la pena, impari la disciplina ma manca il senso delle persone che tu hai ferito, violentato. La responsabilità vera è fatta di carne”.

Sulla morte di Moro: “In quel frangente ho visto l’orrore, il volto della violenza ingiustificabile. L’uccisione di un prigioniero non è concepibile neanche in uno scontro politico armato. Quella morte ha sancito il mio distacco dalle Brigate Rosse, morte che ho provato a fermare ma senza riuscirci. Potevo, forse, fare molto di più”. Sulla sua dissociazione la Faranda è chiarissima: “Mi sono dissociata dalla lotta perchè la lotta armata andava delegittimata politicamente e non militarmente”.

A concludere l’incontro è stato poi don Mimmo Battaglia e lo fa utilizzando un passo della canzone “Il Bandito ed il Campione” di De Gregori: ““Cercavi giustizia ma trovasti la legge” come a voler significare che: “La storia umana, le relazioni, le persone che siamo state, che siamo diventate, le radici di ciascuno, non sono realtà che possiamo liquidare ma sono la vera complessità che dovremmo imparare a raccontarci. Il racconto è qualcosa che manca in questa nostra epoca. Nel raccontarci ci conosciamo e ci avviciniamo”.

Poi il monito contro il silenzio, il coraggio di denunciare, la forza di non tacere più dinanzi alle tante ingiustizie: “La nostra terra è ferita da mentalità che conosciamo bene ma che stentiamo a denunciare, a chiamare per nome. Come chiesa non possiamo tacere dinanzi ai tanti volti sfigurati dal dolore e dalla sofferenza. Di fronte al male e all’ingiustizia, da qualunque parte provengono, non possiamo essere neutrali, ma pur coscienti dei nostri limiti e delle nostre fragilità, siamo chiamati ad alzare la voce. La violenza è sempre menzogna che mortifica l’esperienza umana contro la verità della nostra fede, la verità della nostra umanità. Ogni volta che il sangue innocente viene versato, siamo chiamati a testimoniare la profezia della non violenza, attraverso segni contrari alle logiche del nemico, dello scarto e dell’indifferenza. E, se vogliamo chiamarli per nome, segni alternativi al sistema Caino, al sistema Erode e al sistema Pilato. Come non pensare, in questo momento, ad es., alle vittime di violenze, di soprusi, dell’usura, dell’estorsione e delle intimidazioni della criminalità organizzata. Come non pensare alle vittime di ingiustizie sociali e di sistemi clientelari. Come non pensare alle famiglie di chi ha pagato con la vita scelte scellerate e disumane a causa degli sversamenti illegali di rifiuti, e a quanti soffrono per malattie dovute a questo scempio, a questo crimine. Come non pensare anche alle ingiustizie nel mondo del lavoro, ai precari, alla mancanza del lavoro, ai disoccupati, alle persone sfruttate, alle famiglie delle vittime delle mancate condizioni di sicurezza: non c’è giustizia senza lavoro e nemmeno lavoro senza giustizia. La parola legalità cammina a pari passo con un’altra parola: responsabilità. Come non pensare alla piaga del gioco d’azzardo e alle altre dipendenze. Come non pensare alla bellezza di queste terre ma abbandonate e a volte deturpate. Non possiamo mai voltarci dall’altra parte e far finta di non sapere, di non sentire, di non vedere”.

Non solo, il vescovo sannita ricorda che non basta appellarsi alla legalità e che essa non va sganciata dal senso e dalla ricerca della giustizia, del bene comune, del riconoscere insieme la bellezza. “È possibile essere rispettosi delle leggi – dice – ma avere gli occhi rivolti solo verso se stessi, la propria immagine, il proprio interesse, il bene per sé. La ricerca di giustizia è esercizio etico continuo, esercizio di coscienza. Se non si riscopre il fondamento etico della giustizia anche parlare di diritti sarà per salvare ‘i propri diritti’ a prescindere dalla dignità dell’altro”.

I presule si scaglia poi contro il reato di clandestinità e ribadisce con forza la necessità di leggi giuste: “Ci sono state leggi nella storia che oggi consideriamo profondamente ingiuste: pensiamo al delitto d’onore, tanto per citarne una, ma anche, nel nostro presente, al reato di clandestinità. Molte leggi non riescono a difendere i deboli, i diseredati, gli ultimi. Non è giustizia dividere in parti uguali tra disuguali, come non è giustizia emarginare il diverso, lo straniero, in nome della sicurezza. Abbiamo bisogno di leggi capaci di restituire vita e dignità alle persone: non sia dato per carità quello che è dovuto per giustizia”.

Includere, dunque, e non escludere partendo dalla pena e dal carcere: “Ogni giorno, quando mi incontro e mi scontro con le storie di vita dei tanti ‘esclusi’ – dice – mi sento dilaniato dalla consapevolezza che abitiamo in una casa a testa in giù. E le carceri, le nostre carceri, sono l’espressione più struggente di questo capovolgimento, in cui la giustizia troppe volte diventa vendetta. Nonostante, dunque, ci sia una carta costituzionale che tende ad individuare nella pena uno strumento educativo, la sanzione rappresenta ancora un castigo. L’obiettivo è il recupero, non la pena in sé. Chi sbaglia resta un uomo! È difficile per noi ammettere che chi si macchia di certe colpe gravi sia in tutto e per tutto nostro simile. Siamo veramente capaci di pensare il colpevole come persona da rispettare, salvare, promuovere ed educare? Siamo capaci di testimoniare, in quanto dipende da noi e dai nostri ordinamenti, dalle nostre politiche prostrate a un’economia senza uomo e senza Dio, che il valore della legalità ha il suo fondamento nella vita fraterna? Ce lo dobbiamo chiedere. Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati; impedire che essa ‘appiattisca’ chi ha sbagliato nel suo errore e gli neghi la possibilità del cambiamento. La pena dovrebbe essere reale possibilità di riscatto sociale per recuperare il senso di umanità perduto e offeso”.

Perdono è dire basta, “giustizia è riprendersi la vita” dice Faranda che poi ha concluso: “cogliere una parte della sofferenza fa capire l’enormità di quello commesso e questo può far evitare ricadute. Ad aiutare questo percorso è stato il dialogo , che è una forma di pace. Ogni dialogo negato è un mattone che alimenta il muro dell’indifferenza”. È questo anche il senso di questo incontro secondo mons. Battaglia: “ Tante donne e tanti uomini sono riusciti a ripercorrere la propria vita al contrario, riscattandosi, imparando non solo a chiedere perdono ma anche a perdonarsi. Forse è proprio questo il senso del riscatto, riuscire a rompere il ghiaccio che imprigiona il proprio io, avvicinandosi alla fonte del calore che solo un noi può emanare. Le lacrime svelano l’umanità, il dolore ridona fattezze umane a chi appare solo una bestia”. 

Viene da chiedersi qual è il senso della giustizia, quanto pesi la rottura relazione nelle scelte delle persone, quanto spazio abbiamo dato al dolore ed in quali anfratti è nascosta non la parola perdono ma “basta”. Quanto, l’umanità sia radice comune di appartenenza e non valore disgregante, Dov’è finito il valore etico della giustizia e dove si perde il percorso di riconoscimento della dignità e allo stesso tempo dei diritti. Se il peso delle ingiustizie può giustificare il dolore e se il dolore può essere inflitto come pena. Qual è il peso di una scelta.

La storia di Agnese e Adriana ci insegna una verità: si resta uomini. Si resta uomini se si è capaci di “riprendersi la vita”, nonostante le differenze; che il dialogo è politica, che l’umanità è allo stesso tempo condivisione.

Michele Palmieri



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