Alternanza scuola-lavoro: motore di innovazione didattica o "molestia burocratica"?

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Studenti in una attivita' di Alternanza Scuola LavoroStudenti in una attivita' di Alternanza Scuola Lavoro

A più di trent’anni dall’introduzione dell’Alternanza Scuola Lavoro (ASL) nella progettualità scolastica proviamo a fare il punto della situazione.

Siamo al termine del secondo anno dall’introduzione dell’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro disciplinata dai commi n.33 a 43 della legge n. 150/2015, ma per gli addetti ai lavori, genitori, imprese e nell’opinione pubblica generale la legge e soprattutto la fattibilità dell’operazione appare ancora nebulosa o poco praticabile per quelli che ci credono, una mera “molestia burocratica” per i più scettici.

Le problematiche si acuiscono se parliamo del nostro Sud. “E’ difficile trovare collaborazione di Enti e Aziende a titolo gratuito; si ottengono collaborazioni solo per poche ore e si è costretti, di conseguenza, a progettare più percorsi con aggravio di lavoro per la ricerca di convenzioni, permessi, trasporti e modulistica”. Questa l’esperienza di Concetta Nicoletti, responsabile per l’alternanza scuola-lavoro presso il liceo scientifico “Galilei” di Benevento, che riferisce di aver attivato 15 progetti rivolti a 180 alunni per un totale di 750 ore. “A ciò si aggiunge che alcuni alunni e docenti sembrano subire la legge assumendo comportamenti avversivi che finiscono per vanificare gli sforzi di chi si applica con professionalità e dedizione”, lamenta la docente. Se, dunque, da un lato comincia a maturare l’idea che l’ASL (alternanza scuola-lavoro) possa costituire una passerella tra il mondo della scuola e quello dell’economia, dall’altro c’è ancora chi trova destabilizzante distogliere gli alunni dai percorsi curriculari, ritenuti alibi per quelli meno motivati allo studio.

I pareri dei genitori sono contrastanti. Il signor P.T. è ben contento perché sua figlia riceverà una forma di orientamento per proseguire gli studi, mentre la signora Valentina Di Gioia pensa che sia tratti solo di un dispendio di energie e che al suo ragazzo non restino molte ore per studiare le materie del giorno dopo.

La confusione e il disorientamento sono tanti. Per capirne di più proviamo a ripercorrere l’iter formativo. La L. n.53/2003, nota come“legge Moratti”, all’art. 4 avviava rapporti di collaborazione tra istituzioni scolastiche e imprese, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura per l’acquisizione di competenze, che insieme alle conoscenze di base, fossero spendibili nel mercato del lavoro. Il D.Lgs 77/2005 precisava il ruolo centrale delle istituzioni scolastiche nella stipula di convenzioni e introduceva il concetto di flessibilità dei percorsi di alternanza, la necessità di valutarli e la certificazione delle competenze acquisite. Il nuovo quadro normativo della L. 107/2015 che sollecita un rinnovato impegno ed utilizzo di forme di flessibilità, in coerenza con il PtOF (piano triennale dell’offerta formativa) ha provocato una mobilitazione reale nel mondo dell’associazionismo, in quello imprenditoriale, istituzionale e del volontariato sociale.

Anche gli studenti appaiono mediamente interessati. Permangono però molti nodi ancora da sciogliere per le inadeguatezze e le resistenze culturali della scuola italiana. La legge dovrà subire rimaneggiamenti. Emilia Maccauro, docente di Diritto ed Economia, nonché responsabile per l’ASL presso l’istituto alberghiero “Le Streghe” di Benevento riconosce che “il numero di ore di alternanza da realizzare sono troppe e questo si ripercuote sulla serenità dello svolgimento dell’anno scolastico. Ai licei – ammette- vi è un numero più ridotto di ore da svolgere e si apre un mondo più variegato di possibilità, essendo quella liceale una formazione che, per sua natura, rifugge da specificità professionalizzanti e punta su una cultura scientifica o umanistica, cui i più diversi tipi di partner possono dare un contributo in termini di esperienza pratica”.

Non è dello stesso parere Antonio D’Argenio, docente presso il liceo scientifico “Rummo” di Benevento che, sebbene riconosca come enti ed associazioni siano ben disposti a collaborare con il rinomato istituto, trova che istituti tecnici e professionali possano contare sulla possibilità di stipule con qualsiasi gestore di attività manufatturiera, industriale o di ristorazione, dalle piccole pizzerie a ristoranti e villaggi turistici, che fanno la corte agli studenti per averli come tirocinanti nei periodi estivi.

Questo apre un ulteriore capitolo di discussione: il presunto “sfruttamento” degli studenti. “La soluzione c’è”- assicura Franco Brambilla, responsabile per l’Ufficio Ricerche e Sviluppo dell’Università Cattolica di Milano, intervenuto al meeting con i docenti promosso da Ettore Rossi presso il Centro di cultura “R. Calabria”. “Occorre che la scuola resti titolare dell’elaborazione e della valutazione del progetto formativo”. Niente offerte “chiavi in mano”, dunque. Ammette però che le “alternanze altre” sono utili e spesso necessarie.

Occorre aprire le porte all’impresa formativa simulata, alla scuola-impresa che accetta commesse dal territorio e utilizza a tal fine laboratori propri ed esterni in collaborazione con una o più imprese, alle aziende agrarie e ristoranti didattici che possano accogliere anche studenti di altri indirizzi in stage; occorre utilizzare laboratori didattici esterni inseriti in contesti aziendali e/o di ricerca (project work), stipulare rapporti con società sportive affiliate al CONI.


Certo, non è facile. Sussistono problemi di natura pratica innegabili anche dalla parte delle aziende: il depauperamento del sistema produttivo in Italia non può garantire i necessari posti per lo stage e il tutorato aziendale. Ancora, i bisogni delle imprese sono cambiati ed è necessaria una nuova lettura dei processi e degli strumenti utili ad intercettarli. La scuola e la società in genere non possono però non realizzare che le prospettive di lavoro per il futuro sono cambiate radicalmente.

Alcune ricerche extranazionali danno al 40% l’ammontare dei lavoratori americani, che nel 2020 saranno “free lancer” (libero professionista n.d.r.), ma in generale nel 2025 il 50% dei lavori sarà di natura creativa (Leggi ll Rampone inaugura I nuovi laboratori dopo l'alluvione).

Andremo incontro ad una “terziarizzazione” del lavoro, anche produttivo di beni materiali, che impone di rivisitare l’organizzazione del lavoro scolastico, anche probabilmente con una “progettazione a ritroso”, che coinvolga gli studenti nell’identificare gli esiti di apprendimento desiderati a partire da quelli delineati nei regolamenti; che si rivedano gli strumenti di verifica e valutazione con griglie di osservazione e valutazione delle competenze “trasversali” da concordare con il tutor aziendale; occorre ripensare al “peso” che l’esperienza di alternanza avrà sul voto di fine anno e agli esami di Stato; ai docenti tutor, “cerniera” tra realtà aziendale e scolastica e al momento “merce rara” nelle parole di Angelo Bosco, docente di Storia dell’Arte al liceo classico “Giannone”. Il responsabile per l’ASL trova che ci sia ancora molto da fare perché l’alternanza scuola-lavoro trovi la sua espressione nella condivisione di intenti e nella collegialità progettuale, perché si trovino scorciatoie burocratiche per le quali è ancora necessario affittare un pulmino per portare cinque ragazzi dal liceo alla sede ACI, con grande dispendio di risorse umane ed economiche.

Sonia Caputo



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