Benevento Città Spettacolo - 'Ferito a morte': Buona la prima (o, meglio, il Preludio)

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NOSTRO SERVIZIO - E’ andato in scena ieri, al Teatro Comunale, “Ferito a morte”, tratto dall’omonimo libro di Raffaele La Capria, per la regia di Claudio di Palma e l’interpretazione di Mariano Rigillo. No, questo articolo non è un copia e incolla dell’altro, pubblicato pochi giorni fa su questo portale. Il fatto è che per Benevento Città Spettacolo è andata in scena la stessa pièce in due diversi adattamenti (ma regista e attore sono gli stessi). La prima rappresentazione, “Ferito a morte – Il preludio”, era più una lettura del testo, con la presenza sul palcoscenico di musicisti e cantante. In quel caso tutto era sulle spalle di Rigillo che ha saputo fondersi completamente con gli altri elementi per una restituzione del testo davvero convincente e suggestiva. Quello di ieri, invece, è un vero e proprio adattamento per il teatro in cui irrompono elementi quali la scenografia, le luci e la presenza di altri attori. Forse, se non avessimo assistito anche al Preludio, “Ferito a morte” ci sarebbe piaciuto di più. Buona la regia, in scene corali di cappuccina memoria, puntuale fino alla maniacalità. Ottimo l’uso delle luci e di una scenografia che rimanda sia al citato (nel testo) bradisismo, che a una condizione di precarietà della vita o, forse, di sensazione di scivolamento di ciò che è stato. Il protagonista, in bilico tra presente e passato, evoca i fantasmi della sua vita da un punto di vista privilegiato: la distanza. Un po’ come avvenne per quel “cannocchiale rovesciato” di pirandelliana memoria, anche in questo caso il protagonista deve allontanarsi da Napoli per poterla guardare e capire meglio. E, anche in questo caso, è Roma il luogo in cui raccogliere e tirare le fila di ciò che ci si è lasciati alle spalle (la donna? La città? In entrambi i casi l'occasione mancata). Ricomponendo frammenti di un vissuto nel tentativo di riappropriarsene. Il velo tra i due tempi narrativi è talmente sottile che a volte non esiste nemmeno. Le voci del presente e del passato si fondono e si confondono nel dormiveglia del protagonista. In questo senso l’uso sapiente della regia è riuscito a restituire questa sensazione di sospensione e confusione del tempo, giocando con le sovrapposizioni e la dimensione onirica e relegando alla mancanza di contatto fisico l’unica vera distanza tra passato e presente: gli attori, in scena, non entrano mai in contatto diretto con Massimo (Rigillo), ma emergono dalla luce come fantasmi evocati dalla mente, per interagire solo con la parola.
Sarà che l’opera ha una difficile capacità di essere trasposta in chiave teatrale (non ci sono veri e propri dialoghi, ma monologhi inframmezzati da qualche battuta), ma l’effetto finale è meno convincente del Preludio dove, giocando anche fisicamente con il libro (fingendo a tratti di leggerlo), c’è un richiamo più fedele a quella narrazione che è sempre filtrata dal protagonista. Tant’è che sono poche le aggiunte rispetto alla prima rappresentazione.
Stranamente, anche Rigillo sembra più sotto tono rispetto al Preludio. O, forse, l’essere costretto, a volte, a tornare nell’ombra, lasciar spazio anche alla compagnia (invero molto convincente), ha interrotto quella tensione narrativa che nel Preludio lo ha visto essere meno monocorde. Anche la splendida musica di Paolo Vivaldi ne esce un po’ ridimensionata, costretta com’è a passare da co-protagonista a sottofondo. Tuttavia, vogliamo ribadirlo, immaginiamo che l’effetto sia stato ugualmente interessante per chi non ha assistito alla prima rappresentazione. Ce lo auguriamo anche perché in sala erano presenti Raffaele La Capria e Francesco Rosi, due grandi artisti (scrittore e regista) che sono anche amici di lunga data. Una situazione che sembra uscita direttamente dalle pagine del vincitore del premio Strega. Amici, seduti l’uno accanto all’altro, che assistono alla rievocazione di un passato e una città che “è capace di ferirti a morte”. Come assistere, da Roma, al passato che torna per confondersi col presente.



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