Dialetti, Bruno Menna racconta 'Come parlano i beneventani 3'

16:1:0 8810 stampa questo articolo

Il dialetto beneventano ha ancora piena dignità espressiva? Rischia di essere soffocato da nuovi e più sbrigativi linguaggi? E’ possibile tenerlo in vita, considerandolo per quello che è, ossia la traduzione lessicale di un comportamento quotidiano e/o di una filosofia di vita?
Aesse Stampa risponde a questi interrogativi mandando in edicola e in libreria la terza edizione di Come parlano i beneventani 3 (Le parole, i verbi e i detti cult), un viaggio di 160 pagine nella lingua, nel costume e nell’identità.
Non è una ristampa bensì un “nuovo” libro, che conserva l’impostazione di fondo delle due precedenti edizioni, accompagnate da un confortante successo di critica, ma che si arricchisce di ulteriori contributi.
D’altronde un lavoro che tende a esaltare, conservare e tramandare i sentimenti e il carattere di un popolo non può non essere un cantiere aperto.
«Il capoluogo del Sannio - scrive in premessa l’assessore alle politiche formative della Provincia, Annachiara Palmieri, che ha patrocinato l’iniziativa editoriale - isolato dal territorio circostante per circa otto secoli in quanto possedimento pontificio, ha radicato nelle pieghe più profonde del suo stesso essere una precisa identità che si manifesta nella lingua, naturalmente, ma anche in usi e costumi ben distinti da quelli del circondario».
D’altra parte, il Censis, in un recente rapporto, ha stabilito che, sostanzialmente sono tre gli indicatori di “distintività” del proprio territorio: la dimensione culturale, storico-artistica e paesaggistica (quello che siamo), il patrimonio enogastronomico (quello che mangiamo) e il dialetto (quello che diciamo).
Il libro, aperto da un’introduzione di Bruno Menna e da una postfazione di Maria Ricca, si snoda lungo quattro direttrici: Domande frequenti e categorie dello spirito, Minime, massime e antiquae sententiae (proverbi e motti in salsa beneventana), l’Abbecedario (verbi, avverbi, locuzioni, frasi fatte, modi di dire, vocaboli e aggettivi beneventani) e Titoli di coda, un pout pourri finale di arrangiamenti territoriali, comprensivo della disquisizione sul dialetto al tempo della spending review (Occhio allo spread, ma anche allo sfridd’).
Significativo appare il nuovo sottotitolo: Le parole, i verbi e i detti cult.
«Non volevamo - hanno spiegato i curatori - un libro malinconico, teso alla salvezza di una lingua in estinzione perché consideriamo e valutiamo il dialetto ancora corrente, decadente, forse, ma non subalterno. E allora parole, verbi e detti cult. Perché ciò che è cult è ricorrente e significativo».
Anche la copertina, curata da Carmine De Falco, è nuova: uno scorcio delle mura longobarde, dove risultano appesi, con le mollette (quelle del bucato), quattro irriverenti cartelli recanti, appunto, quattro frasi cult in cui è racchiusa buona parte della “beneventanità”: E’ mort’ ’a criatur’ nun simm’ chiù cumpar’ (Amicizia e interessi) - Tecchet’ e damm’ campav’ cient’ann’ (L’arte del vivere) - I foder’ cumbatt’n e sciab’l stann’ appes’ (La difficile affermazione del merito) - I caver’ a dint’ e i fridd’ a for’ (L’amaro calice dell’ingiustizia).
La vera novità della terza edizione è costituita dal segmento “Piccolo mondo antico”, laddove due “affreschi beneventani” raccontano la città che non c’è più, così come non ci sono più le tradizioni e le suggestioni che l’animavano.
Uno è curato da Grazia Palmieri, giornalista del Vaglio.it, ed è incentrato sull’obbligo delle famiglie di assicurare il corredo alla figlia in età da marito, nonché di sobbarcarsi l’onere dell’apprezzo (o spann’), vale a dire la faticosa cerimonia dell’esposizione del materiale accumulato in vista delle nozze.
L’altro capitolo è un corposo revival degli anni sessanta, in città e non solo. L’anno di partenza è il 1961, allorquando fu lanciata la prima collezione di calciatori Panini. E non a caso il titolo dell’affresco è ‘U paà e ‘u scuopp’, i due giochini dell’epoca, con i quali ragazzini e adolescenti si confrontavano e si scontravano per accaparrarsi le figurine.
I protagonisti sono due simpatiche canaglie, che sotto mentite spoglie (si firmano, infatti, Ursus, protagonista dei film sword and sandal in voga all’epoca e Stìviriss, storpiatura dialettale del nome del culturista Steve Reeves) raccontano, con dovizia di particolari, la loro infanzia nei vicoli del centro storico, il reticolo familiare, l’aggregato sociale, economico e politico, il vicinato, il percorso scolastico, il trasferimento nelle case popolari, le scelte calcistiche e molto altro ancora. Perché, in realtà, la vicenda delle figurine dei giocatori è solo un virtuoso escamotage per raccontare, con qualche rimpianto e molta malizia, un’Italia e una città lontane anni luce da quelle attuali. Il paese del miracolo economico, che acquistava frigoriferi e cucine con il forno incorporato, agognava la mitica Vespa e la solida Fiat 600, si incollava alla tv per seguire Mike Bongiorno, Mina, Don Lurio e le gemelle Kessler.
E la Benevento di allora, con il suo ricco patrimonio, oggi smarrito, di rumori, odori, sapori, usanze, detti, credenze, superstizioni, fascinazioni, entità paranormali che affollavano la mente e l’innocenza stracciona della povera gente e personaggi, veri o di fantasia, che incarnavano l’anima plebea, rassegnata e irriverente del popolo.
Il libro, edito da Aesse Stampa Benevento, disponibile nelle edicole e nelle librerie, ha un costo di copertina di 10 euro. Può essere anche un simpatico e sostenibile regalo per le festività di fine anno.



Articolo di / Commenti