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‘A Marechiaro ce sta ‘na fenestra…’ Al Teatro Romano, invece, la grande fuga

Teatro Romano
Teatro Romano
NOSTRO SERVIZIO - Prendete il Teatro Romano di Benevento con il suo fascino, una tiepida sera di fine estate e l’atmosfera da grande evento di una prima nazionale per Città Spettacolo. Mettete, poi, interpreti di spessore e d’esperienza, un’orchestra davvero impeccabile e le musiche di un certo Roberto De Simone. E aggiungete poi una scenografia (a Benevento?!? Sì, a Benevento) spettacolare come il teatro ai bei tempi, una ricerca linguistica – al limite del filologico - fatta di recupero del passato e contaminazione (con citazioni letterarie davvero formidabili). Ora mischiate il tutto… E meravigliatevi anche voi del perché la ricetta sia un vero disastro.
Marechiaro, waiting for the moon non ha convinto. Inutile girarci intorno. Gli ingredienti, come detto, c’erano tutti. E ognuno, preso singolarmente, otterrebbe il massimo della valutazione. Ma quello andato in scena ieri, al teatro Romano di Benevento, per la regia di Mariano Bauduin, è stato uno spettacolo che non è mai decollato. Sarà anche per un problema di acustica, ma le parole non riuscivano ad arrivare agli spettatori concentrati, come non mai, per riuscire a carpire il senso di un parlato che avrebbe meritato l’ausilio di sottotitoli, complice anche il rumore di sottofondo del mare. I testi, infatti, attingevano all’antico dialetto digiacomiano così come a quello romanesco di Belli, passando attraverso l’inglese maccheronico dei primi italo-americani, il siciliano e le incursioni nello slang giovanile degli ultimi tempi. Ogni personaggio era caratterizzato da un suo preciso linguaggio e anche la recitazione attingeva alla più profonda tradizione delle maschere della commedia dell’Arte. C’è una trama – o sembra che ci sia – per tutto il primo tempo dello spettacolo. Una storia che ricorda un po’ la commedia degli equivoci, senza però il brio della stessa. E senza l’equivoco. Un pretesto, insomma, per mettere in scena la maestria di orchestrali e interpreti (molti provenienti da quella Gatta Cenerentola che ha fatto scuola), in un tentativo di scrivere una cosa a metà tra il musical e l’opera, senza dimenticare le tanto amate incursioni nel barocco. Almeno in quello cantato. Un ensemble di suoni che a volte sembravano “stonare” – ma l’effetto era voluto –nel tentativo di percorrere la strada della ricercatezza. Così, tra grandi classici rivisitati, l’orchestra (vero punto forte della messa in scena) si cimenta nella sinfonia così come nel jazz, con rimandi, deformazioni e ritorni alla tradizione della musica napoletana d’autore.
Il problema si acuisce nel secondo tempo, dopo una fuga senza eguali di buona parte degli spettatori. Il teatro, mai completamente pieno, si ritrova - almeno nel settore laterale in cui siamo seduti - quasi completamente vuoto. In verità la zona centrale delle gradinate deve essere appannaggio di fan irriducibili, perché ci è sembrato che restasse compatta fino alla fine ad apprezzare e applaudire ogni singola canzone.
Nel secondo tempo, i personaggi scompaiono – o si annullano – per dar vita a una sorta di improvvisazione o di prima lettura del copione. Il momento è confuso e neanche il gruppo degli irriducibili capisce che lo spettacolo, a un certo punto, finisce.
All’uscita, una ragazza dello staff di Città Spettacolo tenta di intervistarci per avere un feedback. Svicoliamo per la perplessità che ci attanaglia. E’ un’opera che ha bisogno di sedimentare un po’ nella mente dello spettatore. Innovativa, per alcuni versi, più di un certo teatro sperimentale. Ripescando elementi del passato e quasi destrutturandoli per affidarli allo spettatore come se fossero le tessere di un nuovo puzzle da comporre. Noi non lo abbiamo ancora fatto.


:: Questo articolo è stato stampato dal quotidiano online ilQuaderno.it ed è disponibile al seguente indirizzo:
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