Analisi. Referendum: piccole questioni di quorum

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In attesa delle valutazioni sulle elezioni amministrative, da fare dopo i ballottaggi del 26 giugno, la recente tornata elettorale può essere commentata analizzando il deludente risultato di affluenza al referendum.

Domenica 12 giugno si sono tenute le elezioni amministrative in 971 comuni italiani, di cui 142 con popolazione superiore a 15.000 abitanti. Si tratta del 10% dei comuni italiani, del 17,3% della popolazione totale e del 17,8% degli aventi diritto. Contemporaneamente, si è votato per cinque referendum sull’intero territorio nazionale. Nell’attesa dei dati ufficiali e dei ballottaggi per esprimere una valutazione più completa del turno elettorale, è già possibile commentare il fallimento dei referendum proposti.

Il referendum abrogativo nella Costituzione

I cinque referendum su cui si è votato riguardavano tematiche concernenti la giustizia. Si è trattato di referendum abrogativi, normati quindi dall’art. 75 della Costituzione e dalla legge 352 del 1970, al titolo II. La Costituzione prevede altre due tipologie di referendum: all’art. 132 quello per la modifica dei confini regionali; all’art. 138 quello per la conferma o meno di una modifica costituzionale. Non sono invece previsti referendum propositivi anche se, in epoca repubblicana, si è comunque tenuto un referendum di questo tipo nel 1989.

Quella consultazione, regolata da una legge ad hoc, fu un plebiscito per conferire al “Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità”. È antecedente l’approvazione della Costituzione, invece, il referendum del 2 giugno 1946 per la scelta tra Repubblica e Monarchia. Tornando ai referendum abrogativi, questi sono stati previsti per l’“abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge” (comma 1 art. 75) con l’esplicita eccezione riguardante “le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.” (comma 2 art. 75).

La richiesta di referendum può essere effettuata da “cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali” (comma 1 art. 75). Nel primo caso, attraverso raccolta di firme; nel secondo caso, attraverso specifiche deliberazioni consigliari (legge 352/1970; artt. 27-30). L’elettorato attivo corrisponde a quello previsto per l’elezione della Camera dei deputati, vale a dire la maggiore età (art. 48 Costituzione; la maggiore età è stata fissata a 18 anni con legge 39/1975). L’elemento però più caratterizzante del referendum è previsto al comma 4 dello stesso art. 75 della Costituzione, vale a dire la presenza del cosiddetto quorum: “La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”.

La legge 352/1970 di applicazione dell’art. 75 della Costituzione introduce, tra le altre cose, specificazioni rispetto ai tempi di richiesta di un referendum (fino al 30 settembre e in un anno non precedente la scadenza di una delle due Camere; artt. 31 e 32), assegna la responsabilità di ammettere o meno dei quesiti referendari alla Corte costituzionale (art. 33), stabilisce che il referendum si debba tenere tra il 15 aprile e il 15 di giugno (art. 34), e, infine, impedisce che, in caso di vittoria del “no”, lo stesso referendum sia sottoposto di nuovo nei successivi cinque anni (art. 38).

Il referendum abrogativo è l’unica consultazione elettorale che prevede un quorum, con l’eccezione delle elezioni amministrative in cui si presenta una lista unica (comma 10 art. 71 D. Lgs. 267/2000). È dunque interessante domandarsi il perché di questa previsione. La domanda andrebbe rivolta ai costituenti che nel 1947 approvarono il testo che entrò in vigore a partire dal 1948.

Ebbene, ciò che emerge dalla consultazione degli atti dell’Assemblea costituente è che l’introduzione del referendum abrogativo non fu affatto semplice; al contrario, numerosi furono i costituenti contrari al fatto che il corpo elettorale potesse arrivare a cancellare una norma legittimamente approvata dal Parlamento. In questo senso si spiegano sia la previsione delle 500.000 sottoscrizioni sia quella del quorum.

Se oggi, con l’identità digitale, è relativamente semplice raccogliere 500.000 firme, lo stesso non può dirsi del 1948; anche il numero, mezzo milione di elettori, era piuttosto consistente rispetto sia al totale della popolazione (46,2 milioni) sia al totale degli aventi diritto che, nel 1948, erano solamente coloro che avevano più di 21 anni (29,1 milioni). Per confronto, vale la pena di ricordare che nel 2022 gli aventi diritto al voto (maggiorenni) sono ben 49,8 milioni, circa il 70% in più che nel 1948.

Oggi, almeno sulla carta, è quindi relativamente più semplice fare richiesta di un referendum abrogativo. Il quorum aveva la stessa finalità: la consultazione sarebbe stata valida solo se un numero sufficiente di elettori avesse ritenuto degno di interesse l’argomento sottoposto a voto (o, ma questa è un’interpretazione, se avesse ritenuto di essere sufficientemente preparata per rispondere al quesito proposto). Come hanno risposto gli italiani alle richieste di referendum? Come si evince dal grafico sottostante, la partecipazione è diminuita costantemente nel tempo.

 

 

A partire dal 1974, si sono tenute 18 consultazioni referendarie (referendum abrogativo): il quorum è stato superato solo il 50% delle volte. Non solo: negli ultimi venticinque anni, a partire cioè dal 1997, i referendum sono sempre falliti, con l’unica eccezione dei quattro referendum del 2011 (due sull’acqua, uno sul nucleare, e uno sul cosiddetto legittimo impedimento). Il referendum abrogativo appare dunque uno strumento particolarmente in crisi, il che appare strano in un’epoca storica in cui invece sembra essere maggiore la richiesta di partecipazione da parte dei cittadini.

Una possibilità per ridare vigore allo strumento potrebbe essere quella di renderlo, paradossalmente, più difficile, a partire dalla raccolta delle firme. Infatti, la facilità con cui queste sono raccolte induce i promotori a pensare che largo sia il consenso della popolazione nei confronti del tema; tuttavia, dal punto di vista numerico, non è affatto così. Oggi raccogliere 500.000 firme è un requisito ex ante troppo leggero.

Un’altra possibilità – ma qui, è evidente, si entra nel campo della discrezionalità – è quella di evitare referendum troppo tecnici e di limitarli invece a grandi questioni che potremmo definire di coscienza o addirittura di morale, come furono per esempio i casi di aborto e divorzio e come oggi avrebbe potuto essere il caso dell’eutanasia se il quesito fosse stato accolto dalla Consulta. 

Paolo Balduzzi - docente di Economia ed editorialista presso "Il Messaggero" - per gentile concessione www.lavoce.info



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