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L'eccesso di zelo di Mascia: attenti al senso di colpa!



{Benevento}Sotto tiro è il senso di colpa e il tanto che di falso e afflittivo è capace di instaurare nei rapporti affettivi e familiari. Profondo, spietato e paradossale “Un eccesso di zelo” di Manlio Santarelli interpretato molto bene da Alvia Reale, Fernando Pannullo e Nello Mascia che ne è stato anche il regista. E’ andato in scena ieri al Teatro Massimo di Benevento, per la 28ma edizione di Città Spettacolo.

Spesso nelle relazioni, anche nelle più intime o soprattutto in queste, chi le vive non è in un rapporto di parità. Sia il dislivello dettato da gap culturali o di sicurezza psicologica o da sessualità repressa. Molto facile è, prima facie, vedere tutto il “male” che la parte “forte” infligge alla “debole”. Meno decifrabile, ma non meno dannoso è l’atteggiamento colpevolizzante della “vittima”, capace di corrodere e punire anche più duramente il “carnefice”.

Mascia è un marito sicuro di sé, un oboista, un po’ maschio d’antan. Zelante nel lavoro (che finge di pesargli), spiccio nei giudizi su tutti e abbastanza arrogante con la moglie, Alvia Reale. Questa, invece, si mostra come una fragile cinquantenne, ambientalista zelante, formata da documentari visti alla tv, in casa, dove da sola passa giornate intere. Dopo aver fatto, il dovuto e il necessario per i due figli, mai in scena. Di nascosta alleva formiche, nutrendole con lo zucchero...

C’è poi il padre di lei, Pannullo, fin troppo zelante nelle premure verso la coppia (e disprezzato dal genero), ipocondriaco, debole di carattere (“senza polso”) e fissato per le malattie che in realtà non ha.
La pièce va avanti ordinaria, anche con qualche lentezza, nel primo atto, poi comincia a salire di tono e di ritmo verso la fine, quando la moglie, in un attacco di ansia da solitudine, cerca di impedire al marito di andare “per una volta” al lavoro. O almeno di portarla con lui.
 
Non riuscendovi, inventa di avere una relazione con uno scrittore di cui è collaboratrice. La discussione che ne nasce degenera e finisce a botte. Poi il marito va via dicendo: “Facciamo finta che tu non hai parlato. Stasera mi ripeterai tutto e io deciderò se crederlo, se crederlo in parte o per niente”.
Va via, ma dimentica le chiavi e gliele chiede al citofono. Ma la moglie nel buttargliele “coglie l’occasione” per un gesto definitivamente colpevolizzante e con le chiavi si butta di sotto anche lei.
Il secondo atto inizia con il primo colpo di scena. La donna non è morta, nel precipitare s’è abbattuta sul marito, rimanendo illesa. Lui invece si è ridotto su una sedia a rotelle e, per di più, accudito con insopportabile amorevolezza dal suocero che appare rifiorito dopo “l’incidente”. Altrettanto rinvigorita è la moglie che per di più è diventata una scrittrice di successo con il suo libro dall’improbabile titolo “Formiche con le ali”. Le parti si sono completamente invertite. Ora il marito che, inacidito dall’inabilità, dopo vari sviluppi,  chiede alla moglie di non lasciarlo solo. Ma,a sua volta, vi viene lasciato. 
Quindi il finale scoppiettante. Con il paralitico che riesce finalmente a far emergere l'omosessualità del suocero inducendolo, dopo qualche sfrozo, a indossare il vestito della figlia e a sculettare, mentre questa, a sua volta per aver dimenticato qualcosa, rientra anticipatamente in casa. Lei prima s'indigna per ciò che vede e poi fa per portar via il padre da quella imbarazzante situazione. Il marito li prega di non andar via e di sedersi a discutere. Non lo ascoltano e allora lui prende la pistola mira alle loro gambe e spara.

Finiscono così tutti e tre sulle sedie a rotelle. Con tanto di didascalia: "Ora che siamo tutti e tre seduti possiamo discutere".
La parità delle condizioni come unica possibilità della comunicazione, a cominciare da quella affettiva. O perlomeno per riuscire a non farsi soggiogare la vita dai sensi di colpa...
C.P.


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