L'Analisi. La pace fiscale vale meno di quanto promette la politica

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Un’eventuale “pace fiscale” porterebbe alle casse dello stato una somma ben inferiore all’ammontare teorico. Cancellare i crediti non più esigibili sarebbe l’unica soluzione, limitando al minimo il rischio di incentivare l’evasione in futuro.

Nessuna “guerra fiscale” in corso

Dopo averne già discusso nel corso dell’intera legislatura, con le elezioni in vista si torna a parlare di “pace fiscale”. La prevede per esempio il programma di Centrodestra, con Matteo Salvini che l’ha inserita tra le priorità per i primi cento giorni di governo in caso di vittoria della coalizione di Centrodestra.

Dai toni con cui se ne parla, sembrerebbe esserci una “guerra fiscale” in corso. Fortunatamente, non è così. Col fisco, come sempre, sono in posizione “guardinga” tutti coloro che non pagano il tributo attraverso ritenute operate da terzi – quindi innanzitutto i titolari di redditi da lavoro autonomo e d’impresa; restano, invece, in posizione “rassegnata” coloro che vedono solo il netto, dopo quanto trattenuto dal terzo con cui hanno a che fare (cioè, in sostanza, lavoratori dipendenti e pensionati).

Ci sono poi i titolari di redditi finanziari che, se passivi, ricevono un importo netto di imposte prelevate alla fonte (ancorché in forma forfettaria) e che non si differenziano particolarmente dai titolari di reddito di lavoro dipendente. Se attivi (verrebbe da dire: “attivisti”), si trovano in situazioni analoghe a quelle degli autonomi (e forse con spinte centrifughe anche più decise).

È una situazione che richiede ripensamenti e correttivi, come si era tentato di fare con la legge delega per la riforma tributaria, dopo una fin troppo lunga e poco proficua mediazione in Commissione parlamentare, ma che non presenta i caratteri di drammaticità che definiscono una guerra vera e propria. È, quindi, inappropriato parlare di “pace fiscale” anche perché essa riguarderebbe – da quanto è dato capire – solo in misura minima posizioni ancora in contestazione essendo rivolta massimamente alla definizione di debiti d’imposta ormai definitivi e che devono solo essere riscossi. Se, invece, si pensa ad una definizione generalizzata anche di tutte le contestazioni in corso è bene smetterla con i richiami generici alla “pace fiscale” e sostituire questa bella frase con una parola un po’ più oscena per definirla con il suo vero nome: “condono”.

Una montagna di crediti solo teorici

I pruriti pacifisti nascono, infatti, dalla constatazione che nei conti dello stato risultano contabilizzati ben 1.100 miliardi di euro di crediti d’imposta. Basterebbe portarne a casa un modesto 2 per cento e, voilà, con 22 miliardi si potrebbero realizzare tanti proficui interventi. Al tempo stesso, si lascerebbe in pace un sacco di gente alle prese con annose e irrisolte querelle fiscali. Insomma, una vera e propria epifania, con un finale abbraccio fra rappresentanti della collettività (i funzionari del fisco) e masse di cittadini che, per sfortunata coincidenza, si sono scoperti, nel corso del tempo, debitori di un qualche tributo o di una qualche contravvenzione.

Sennonché il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha più volte riferito, anche in sedi parlamentari, che la montagna vertiginosa dei crediti d’imposta – la mostruosa cifra di 1.100 miliardi di euro – non può considerarsi suscettibile di azione riscossiva per intero, ma per un importo dell’ordine di (soli) 81 miliardi. E quest’ultima è una somma che contiene un miscuglio di crediti consolidati (cioè non più oggetto di contestazione) e di crediti che nascono da azioni riscossive solo provvisorie perché la debenza del tributo è ancora in discussione.

Gli altri mille e più miliardi sono solo frutto della resilienza del sistema di cancellazione delle posizioni creditizie inesigibili e non di un concreto – ancorché difficoltoso – ammontare ragionevolmente aggredibile. Si tratta, infatti, di posizioni riconducibili a contribuenti deceduti o falliti o non più reperibili (per cambiamento di residenza) o effettivamente nullatenenti (e quindi non più proficuamente aggredibili). L’unico intervento che ha senso nei riguardi di questo enorme ammontare di teorici crediti è la loro cancellazione e il conseguente sgravio di responsabilità dell’entità giuridica addetta alla relativa riscossione (perlopiù Agenzia delle Entrate-Riscossione).

Sul punto ci si aspettava un più coraggioso intervento in sede di redazione della legge delega per la riforma tributaria; ma l’articolo 8 della proposta non contiene riferimenti alla problematica e, nonostante le accese discussioni che hanno accompagnato la riformulazione della delega, l’argomento è restato fuori discussione.

La riproposizione oggi della “pace fiscale” basata sull’apparente gigantesca grandezza dei crediti non riscossi da parte dello Stato mostra, quindi, una scarsa conoscenza dei dati di fatto a meno che essa non venga avanzata come vero e proprio grimaldello inteso ad ampliare progressivamente il suo orizzonte (come è avvenuto nel caso di tutti i condoni e scudi fiscali che si sono susseguiti – a distanza di circa 9 anni l’uno dall’altro – dal 1973 in avanti). Se essa, infatti, fosse una rottamazione quater (o addirittura quinqies) occorrerebbe domandarsi perché quelle precedenti hanno funzionato così poco.

Uno studio in proposito coordinato da Carlo Cottarelli indica che dei 53 miliardi derivanti dalla formale adesione alle numerose rottamazioni precedenti l’ammontare effettivamente riscosso non va oltre i 18 miliardi. Contribuenti che, quindi, avevano aderito alla mano tesa e si erano impegnati a risolvere la propria posizione debitoria attraverso un versamento di carattere premiale, vi hanno progressivamente rinunciato ritenendolo nel tempo ancora troppo poco conveniente (e perché, evidentemente, anche poco timorosi degli effetti negativi che ne sarebbero potuti derivare).

La rottamazione è, infatti, occorre tenerne conto, uno strumento che si alleggerisce di passaggio in passaggio: perché per rendere appetibile la rottamazione successiva occorre che essa contenga qualche vantaggio in più rispetto a quella precedente. Tant’è che mentre le prime rottamazioni – tutte basate su un pagamento non solo ridotto ma anche dilazionato – facevano venire meno gli effetti sananti al mancato versamento dell’importo dovuto alla prima scadenza, questa sanzione indiretta è stata spostata progressivamente in avanti così che nell’ultima rottamazione gli effetti sananti vengono meno solo se si omette il versamento di ben 10 rate!

La conseguenza è la produzione di altro materiale scarsamente riscuotibile affiancata dall’iscrizione (obbligatoria) nei conti pubblici di nuovi crediti d’imposta, certo legittimi e forse anche tecnicamente “nuovi”, ma la cui riscossione pare ancora più improbabile. Una soluzione, insomma, davvero da evitare.

Tommaso Di Tanno - docente al Master Tributario dell’Università Bocconi, ha fatto parte di Commissioni Governative di Studio in materia tributaria e societaria - per gentile concessione www.lavoce.info



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