L'Analisi. Regioni, la vera posta in gioco con l’autonomia del Nord

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Sembra in dirittura d’arrivo l’intesa stato regioni sul federalismo differenziato. È una strada da cui sarà difficile tornare indietro. Per questo le soluzioni andrebbero valutate con cura. Perché i rischi non mancano. Anche per le casse dello stato.

Un passaggio importante - Buffo paese. Sappiamo tutto sul sistema di voto del Festival di Sanremo, nulla sulla proposta di autonomia regionale in attesa di approvazione da parte del Consiglio dei ministri. Qualcuno ne ha parlato, per dover di cronaca, ma evidentemente nuovi e vecchi media considerano l’argomento troppo noioso rispetto all’ultimo tweet del politico di turno. Eppure, almeno a giudicare dalle carte, rischia di cambiare abbastanza radicalmente la mappa dei poteri su pezzi importanti del territorio nazionale, in particolare su tutto il ricco Nord produttivo. Con in più l’aggravante, come già spiegato da Paolo Balduzzi e Gianfranco Viesti e Floriana Cerniglia, che si tratta di una riforma su cui sarà difficile tornare indietro. Una volta che il Parlamento avrà approvato – a scatola chiusa, cioè senza poter emendare il testo – l’intesa proposta dal governo tra lo stato e le diverse regioni, una sua eventuale revisione richiederà l’accordo della regione interessata ed è facile immaginare ciò che questo vuol dire.

L’intesa - Di che si tratta dunque? Per il momento, si tratta dell’approvazione di tre documenti in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione, uno di intesa tra lo stato e la regione Emilia-Romagna, gli altri due di intesa tra lo stato e la Lombardia e il Veneto, ma sarebbe meglio dire con il Lombardo-Veneto, visto che per queste due regioni i documenti sono identici. Altre intese, con altre regioni, seguiranno in futuro.

Le tre intese ora sul tappeto sono molto diverse fra loro. Per quanto incisivo, il decentramento stile Emilia è limitato ad alcuni punti delle materie concorrenti indicate nell’articolo 117 della Costituzione, espandendo in molti casi funzioni già della regione. Quello del Lombardo-Veneto riguarda invece tutto ciò che è possibile decentrare su tutto il possibile ventaglio delle 23 materie concorrenti. Ci sono, per dire, scuola, sanità, ambiente, rifiuti, territorio, protezione civile, finanza locale, commercio estero, rapporti con l’Unione europea, infrastrutture stradali e ferroviarie, porti e aeroporti, demanio, sistema camerale e molto altro. In più, mentre il progetto dell’Emilia è abbastanza silente sui meccanismi di finanziamento delle nuove funzioni, quello del Lombardo-Veneto è lapidario sul fatto che tutto dovrà essere finanziato con compartecipazioni ai tributi erariali. Naturalmente, non tutto è ancora definito, su alcuni nodi l’accordo non c’è e dovrà essere trovato in Consiglio dei ministri, e comunque ci sarà un lungo percorso attuativo sotto forma di decreti del presidente del Consiglio. Ma la notizia, arrivata appena prima della riunione del Consiglio, che il Tesoro ha approvato il sistema di finanziamento previsto nel documento lombardo-veneto ha dato probabilmente una spinta definitiva al raggiungimento dell’accordo.

Le funzioni - L’intesa, soprattutto nella versione lombardo-veneta, solleva parecchi interrogativi, sia sul piano delle funzioni che del sistema di finanziamento. Sulle prime, chi ha deciso e su che basi che le regioni siano in grado di offrire servizi più efficienti dello stato centrale su tutte queste materie? Prendete per esempio la scuola, di sicuro la funzione principale che verrà decentrata a seguito dell’accordo. Sulla base delle stime Invalsi, le scuole venete e lombarde, gestite da un ministero centrale, sono già tra le migliori sul territorio nazionale. Viceversa, la formazione professionale, gestita dalle due regioni, non ha mai particolarmente brillato. Ora è del tutto possibile che sulla organizzazione della rete scolastica, della gestione del personale, della edilizia scolastica, dei rapporti delle scuole con il territorio e le imprese, le due regioni si rivelino più capaci dello stato centrale. Ma siccome non lo sappiamo, prudenza avrebbe voluto che il decentramento delle funzioni fosse soggetto a verifiche, basate su criteri predeterminati e che ci fosse, in caso di inadempienza, la possibilità di un loro ritorno allo stato centrale. La verifica era prevista nella pre-intesa stato-regioni, molto più limitata in quanto a materie, varata dal governo Gentiloni alla fine della passata legislatura; pare del tutto scomparsa nella versione attuale, che pure riguarda un ambito molto più vasto.

Sulla scuola poi c’è un aspetto particolarmente odioso, che merita segnalare. Sia pure gradualmente nel Lombardo Veneto gli insegnanti diventerebbero dipendenti regionali, iscritti a un ruolo regionale. Ne segue che chi ha vinto un concorso nazionale, ma non regionale, non potrà più concorrere, o almeno non automaticamente, a una cattedra nel Lombardo-Veneto. Magari si troverà qualche soluzione, ma l’intenzione sembra essere proprio quella che nelle scuole venete (o lombarde) ci insegnano solo i veneti (o i lombardi): perché mai questo vincolo dovrebbe migliorare la qualità delle scuole?

E simili interrogativi si pongono su molte delle altre funzioni delegate. Su alcune, le regioni hanno certamente un vantaggio, su altre c’è invece il rischio serio di una balcanizzazione del territorio e di una moltiplicazione delle burocrazie e delle legislazioni.

Il finanziamento - Le tre regioni del Nord hanno ottenuto che il finanziamento sia basato, non su trasferimenti da parte dello stato, ma su compartecipazioni e riserve di aliquote sui tributi erariali, l’Irpef e l’Iva. In particolare, sulla base di una quantificazione svolta da una Commissione paritetica stato-regione, le risorse necessarie al finanziamento delle nuove funzioni saranno trovate come percentuali del gettito di questi tributi. L’attribuzione iniziale avverrà al costo storico, cioè a quanto costa oggi allo stato offrire quelle funzioni sul territorio regionale; in prospettiva (un quinquennio), il calcolo verrà fatto sulla base di fabbisogni e costi standard, valutati a livello centrale.

Ma siccome i fabbisogni e i costi standard sono più o meno come il Santo Graal, che si cerca sempre e non si trova mai, è molto probabile che una volta attribuita alle regioni una quota dei tributi erariali – per dire, il 30 per cento dell’Irpef incassata sul territorio – la crescita di questa determinerà automaticamente le risorse a disposizione delle regioni per finanziare la nuova spesa. Ne segue che se la dinamica del gettito dei tributi compartecipati è superiore nelle due regioni rispetto alla media nazionale (come è stato negli ultimi decenni), allora le due regioni avranno più soldi delle altre per finanziare la propria spesa. Attenzione, l’opposto non può succedere. Le regioni si sono garantite che comunque le risorse derivanti dalle compartecipazioni non possono generare un gettito inferiore alla spesa media dello stato per le funzioni delegate su tutto il territorio nazionale. In sostanza, se le cose vanno bene, le regioni si tengono i soldi in più; se vanno male, ci pensa comunque lo stato nazionale a rimborsarle. Pare un modo curioso di intendere l’autonomia.

C’è infine un problema non secondario. Il fatto che le entrate delle regioni dipendano dall’evoluzione delle proprie basi imponibili di per sé non è un male; vuol dire che hanno un incentivo a farle crescere (e a far pagare le tasse ai propri cittadini). Ma qui stiamo parlando delle regioni più ricche d’Italia, a cui verranno devolute quote importanti di tributi e altri cespiti erariali. Ora, la situazione economica e dei conti pubblici del paese è quella che è; grazie anche alle politiche del governo giallo-verde, la possibilità che nel prossimo futuro si debba introdurre una forte correzione dei conti pubblici, tagliando spese e aumentando entrate, è tutt’altro che secondaria. Ma come farà il governo centrale a farlo, se ha già attribuito alle regioni una buona parte del gettito tributario e le competenze sulle spese? In altre parole, a garanzia dell’enorme debito pubblico italiano, che è e resterebbe nazionale, c’è la capacità dello stato di sollevare tributi. Devolvere una buona parte di questi alle regioni ricche, sia pure a fronte di spese che lo stato non deve più sostenere, significa ridurre queste garanzie. Che ne penseranno i mercati finanziari?

Insomma, il decentramento è una cosa noiosa e Sanremo è più divertente. Ma tra un tweet e l’altro, non sarebbe male se gli italiani riflettessero un po’ su quello che sta succedendo.

Massimo Bordignon Professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'Universita Cattolica di Milano. Tratto dal sito www.lavoce.info per gentile concessione



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