La stanchezza collettiva: viviamo in un’epoca di sovraccarico emozionale?

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Lavoro e stress Lavoro e stress

Ci svegliamo stanchi, andiamo a dormire svuotati. Non importa se la giornata è stata piena o vuota, produttiva o dispersiva. La sensazione è la stessa: quella di avere qualcosa dentro che si consuma lentamente, come una candela accesa da troppi giorni.

Non è solo stress, non è semplice malinconia, e nemmeno la classica sindrome post-vacanza (che ormai, diciamolo, si presenta ogni lunedì mattina dell’anno). È qualcosa di più sottile e insieme più invasivo. Qualcosa che ci riguarda tutti – chi lavora, chi studia, chi è in cerca di un senso. Un velo di stanchezza, sì, ma non solo fisica. E nemmeno solo mentale. Una stanchezza collettiva, emozionale, pervasiva.

L'impressione, sempre più condivisa, è che il nostro tempo sia saturo. Saturo di notizie, di notifiche, di tragedie quotidiane, di aspettative non richieste. E in mezzo a tutto questo, dobbiamo trovare uno spazio per essere “presenti”, performanti, lucidi, magari anche felici. Una scommessa continua con la nostra energia interiore, che sembra finire sempre prima del previsto. In fondo, chi gioca ogni giorno la propria partita tra lavoro, famiglia e bombardamento digitale forse farebbe meglio - per distendersi - a tentare la sorte su Ivibet Italia per scommettere online, almeno lì le regole sono chiare e il banco è dichiarato.

Il tempo dell’iperstimolazione e dell’esaurimento invisibile

Viviamo immersi in un flusso costante. Informazioni, input visivi, suoni, messaggi, alert. Tutto arriva, tutto ci attraversa. Anche se non vogliamo. Anche se cerchiamo – invano – di fare selezione. La psicologa e docente di Harvard, Sherry Turkle, ha definito questa condizione “alone together”: soli ma connessi, costantemente stimolati eppure sempre più distanti da noi stessi.

Il peso del sentire troppo (e sempre)

Oggi è impossibile non sapere. Basta uno scroll per assistere a guerre, disastri ambientali, soprusi, emergenze sanitarie. Una cronaca del dolore quotidiano, spesso ingovernabile. Ma il nostro cervello – lo dicono i neuroscienziati – non è progettato per contenere tutta questa sofferenza in simultanea. Empatizziamo, assorbiamo, ci sentiamo impotenti. E nel frattempo ci viene chiesto di continuare a funzionare.

Viviamo una forma di iperemozionalità passiva. Vedere tutto non significa comprendere tutto. E sentire tutto non equivale ad elaborarlo. Anzi. Come scrive il sociologo tedesco Hartmut Rosa, siamo affetti da una “accelerazione sociale” che ci porta a vivere le emozioni in modo sempre più frammentario e superficiale, con una soglia d’impatto che si abbassa progressivamente. Diventiamo – lentamente – immuni a ciò che ci colpisce.

Il risultato? Una forma di intorpidimento psichico che si maschera da stanchezza. Ma è molto di più. È l’impossibilità di restare umani nel rumore continuo del mondo.

Quando anche il piacere diventa dovere

Perfino le vacanze, oggi, ci stancano. Dobbiamo documentarle, condividerle, “renderle utili”. Anche il tempo libero diventa performance. Il weekend deve essere ottimizzato, la cena fuori va postata, la lettura deve essere illuminante. Si perde il piacere del vuoto, dell’ozio, della disconnessione vera.

Secondo uno studio del 2022 pubblicato su *Nature Mental Health*, il cosiddetto “sovraccarico cognitivo da tempo libero” sta aumentando, specialmente nei paesi occidentali. Un paradosso: ci stanchiamo anche quando dovremmo ricaricarci. Perché non smettiamo mai davvero di essere “sotto pressione”. Nemmeno sul divano.

E il digitale, pur essendo parte della soluzione, è anche grande parte del problema. Una ricerca dell’Università di Stanford ha dimostrato che l’uso prolungato dei social media è fortemente correlato a stati di ansia latente e a un calo della soglia dell’attenzione. Come dire: ci distraiamo per fuggire dalla fatica, ma finiamo per peggiorarla.

La nostalgia del silenzio, il bisogno di una pausa collettiva

C’è una parola giapponese che descrive perfettamente ciò che molti di noi sentono, senza saperlo nominare: “karōshi”. Significa letteralmente “morte per troppo lavoro”, ma nel senso più esteso indica uno stato di logoramento psico-fisico causato da una pressione continua, spesso autoimposta.

In Italia, il fenomeno assume forme più sottili: non si muore (quasi mai) fisicamente, ma si smette di brillare. Ci si spegne a intermittenza. Si va avanti per inerzia. Per abitudine.

Eppure non tutto è perduto. Sempre più persone cercano alternative: rallentano, cambiano vita, riscoprono il valore del silenzio, del tempo non produttivo, della cura di sé. Il successo crescente dei cammini lenti, dei ritiri digitali, del “forest bathing” non è moda, ma bisogno.

Lentamente – come le cose vere – nasce una consapevolezza nuova. Che forse il primo atto di ribellione, oggi, è dormire otto ore. Dire “basta” a una notifica. Rimanere offline. Respirare.



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